Jason Statham torna in azione, ma “A Working Man” non colpisce nel segno

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I film di salvataggio e quelli di vendetta non sono esattamente la stessa cosa, ma si muovono spesso sullo stesso terreno. Entrambi appartengono a quel genere muscolare in cui i protagonisti comunicano più con i pugni che con le parole, in trame fitte di azione e giustizia fai-da-te.

Esistono due principali filoni all’interno di questo universo. Il primo è quello asciutto ed essenziale, dove il tempo è denaro e ogni scena spinge la trama verso la risoluzione. L’esempio più emblematico è “Taken”, in cui Liam Neeson, a 55 anni, impiegava appena 94 minuti per sgominare un traffico internazionale di esseri umani e salvare sua figlia. L’altro è il sottogenere alla “John Wick”, in cui lo stile ha quasi la meglio sulla sostanza, e la mitologia costruita attorno a killer professionisti e mafie russe diventa parte integrante dell’esperienza.

“A Working Man” sembra voler appartenere a quest’ultima categoria, ma probabilmente avrebbe funzionato meglio se avesse limitato le sue ambizioni al modello più semplice e diretto. Il film segna la nuova collaborazione tra Jason Statham, britannico dal pugno rapido e dalle parole misurate, e il regista David Ayer, già autore de “The Beekeeper” — un titolo di vendetta che lo scorso anno ha sorpreso con la sua folle originalità. Stavolta, però, il risultato appare stanco, quasi anacronistico, come un film da zapping notturno.

In effetti, ogni volta che il ritmo comincia a calare, la sceneggiatura — cofirmata nientemeno che da Sylvester Stallone — cambia improvvisamente registro per qualche minuto, quasi fosse un altro film. Durante la proiezione a cui ho assistito, parte del pubblico ha iniziato a fischiare già nel primo atto, segnale chiaro che il ritmo narrativo fatica a tenere alta l’attenzione.

Girato in parte a Chicago, “A Working Man” sfrutta lo sfondo urbano della città, ma salta da un’ambientazione all’altra con poca coerenza. Alcune scene sembrano ambientate nella realtà virtuale di “Matrix”, altre nei paesaggi desertici alla “Mad Max” o persino nell’elegante Vienna settecentesca di “Amadeus”. La costumista Tiziana Corvisieri pare essersi liberata subito dal vincolo dell’abbigliamento da cantiere del protagonista, e da lì in poi, tutto è permesso.

Il copione è tratto dal romanzo “Levon’s Trade” di Chuck Dixon, noto negli anni ’90 per i suoi fumetti su Batman e il Punitore. E proprio al Punitore somiglia Levon Cade, ex marine britannico ora senzatetto e capocantiere a Chicago: un uomo che non esita a uccidere. Se fosse davvero bravo nei lavori edili quanto lo è con le armi, l’intera infrastruttura americana sarebbe già sistemata.

Naturalmente Levon è un vedovo, e ha una figlia adorabile (interpretata da Isla Gie) che lo considera un eroe. È anche in lotta per l’affidamento con il nonno materno della bambina, un eccentrico seguace del New Age che organizza feste in giardino a tema “Alice nel Paese delle Meraviglie”. E ovviamente, ci si aspetta che la piccola venga rapita da criminali tatuati, scatenando così il ritorno delle “competenze particolari” di Levon.

E invece no: il colpo di scena è che non è sua figlia a essere rapita, ma quella del suo capo, interpretato da Michael Peña. L’attore aveva avuto ruoli ben più significativi in precedenti film di Ayer come “End of Watch” e “Fury”, ma qui appare del tutto marginale. Lo stesso si può dire di David Harbour, altro “veterano” del regista, che presta il volto a un ex commilitone cieco ma ancora letale con arco e frecce. La sua presenza sembra esserci solo per permettere a Statham di dirgli: “Non sono riuscito a salvarti la vista. Mi dispiace.”

In definitiva, “A Working Man” è un film che aspira a essere tante cose ma non riesce davvero a centrare nessuna. Troppo elaborato per un’azione lineare alla “Taken”, ma privo dell’universo affascinante e coeso dei migliori titoli alla “John Wick”. Jason Statham fa il suo dovere, come sempre, ma stavolta non basta.